Fin dalla fondazione, il Pd ha preferito non avere una identità precisa e non decidere chi rappresentare. Così è diventato uno strumento di potere adattabile a ogni governo e si è spostato sempre più destra. L'articolo di Alessandro Calvi per L'Essenziale:
che “quando vedi Meloni, be’, sembra divertirsi. Letta mai, e se ci prova è goffo”. E ha spiegato: “La leggerezza porta capacità di rischio”, e questo, dice, “è proprio il momento […] di rischiare”.
Tuttavia, al cronista che chiedeva cosa il Pd avrebbe proposto agli italiani per esempio in materia di diritti o di economia, dall’interno del nascente partito venivano offerte risposte generiche e ragionamenti di circostanza. Veniva invece spiegato nel dettaglio che c’era prima di tutto da pensare a costruire le strutture del partito. Il resto sarebbe venuto in seguito. E così si discusse – come sta accadendo anche in questi giorni – soltanto di segretari, di correnti e di alleanze.
Questo anche perché, mancando un vero ancoraggio ideale, si è fatto sempre più sfumato il confine di ciò che era opportuno o possibile sostenere. E anzi quel confine ha finito per spostarsi sempre di più nel campo delle altre forze politiche, e in particolare verso. Lo raccontano, tra l’altro, le politiche sulla sicurezza condivise dal Pd. Valga per tutti l’esempio degli accordi con la Libia sui migranti.
L’unica discussione che in questi quindici anni il Pd è stato davvero in grado di offrire al paese è stata quella sul potere, infinita e sfiancante. La sua classe dirigente, quando si è resa conto dell’esistenza di un problema politico, ha saputo rispondere soltanto sul piano della relazione tra partito e potere. E anche adesso non sa far altro che discutere di questo.
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